Commemorazione di S. Francesco di Paola
aprendosi a Paola i solenni festeggiamenti
per il V Centenario della sua morte
(Paola 1 aprile 2006)
Illustrissime autorità, carissimi confratelli e amici tutti.
Con grande commozione interiore dò inizio a questa commemorazione solenne di S. Francesco di Paola, alla vigilia della solenne apertura dei festeggiamenti per il V Centenario della sua morte.
Un saluto particolare ai due illustri relatori che con me rievocheranno questa sera la figura del Santo Paolano.
Ringraziamo Dio dal profondo del cuore, che ci concede la grazia di questo momento e chiediamogli di poter attingere da esso energie nuove per rendere ancora viva e palpitante in mezzo a noi la presenza di S. Francesco.
499 anni ci separano dalla sua morte avvenuta a Tours in Francia il 2 aprile 1507; 523 anni da quando lasciò Paola per la Francia ai primi di febbraio del 1483. Eppure S. Francesco è ancora vivo e palpitante in mezzo a noi. Vivo nella sua terra di origine, vivo nella sua città natale, vivo nella sua casa, vivo nella fede dei suoi devoti sparsi per il mondo intero, vivo nella Chiesa intera, che lo addita a modello a quanti vogliono accogliere con impegno il Vangelo.
Questa sera siamo qui per ricordarlo e celebrarlo, per raccogliere l’eco del suo messaggio, capirlo, assumerlo come felice eredità, che altri ci hanno trasmesso e che noi vogliamo consegnare come testimone di speranza a chi verrà dopo di noi; essi certamente saranno contagiati, come lo siamo stati noi oggi, dal fascino della sua vita, dalla forza del suo messaggio, dal fulgore della sua santità.
Vita, messaggio, santità: tre parole che riassumono una storia, che è iniziata qui a Paola il 27 marzo 1416 e si è chiusa il 2 aprile 1507 a Tours, e la cui luce supera i ristretti confini del tempo, perché assorbita ormai nell’eternità infinita di Dio, al cui splendore la sua luce si è alimentata e del cui splendore oggi continua a vivere e a risplendere per la Chiesa e per il mondo.
VITA
Una vita lunga 91 anni, vissuti tutti, sino alla fine, con coscienza vigile, con impegno deciso, con entusiasmo senza pari. Quando muore è ancora nella pienezza delle sue forze psichiche e fisiche, anche se, quest’ultime, di un vecchio novantenne. Una vita ricca di avvenimenti, dei quali è stato protagonista di primo piano, mai lasciandosi sfuggire di mano il timone, perché non è stato mai passivo dinanzi a quanto gli succedeva, anche nei momenti in cui gli avvenimenti si presentavano come imprevisti e pieni di difficoltà.
Una vita che lo ha visto itinerante fin dall’adolescenza: S. Marco Argentano, Roma, Assisi, la Calabria, la Sicilia, Napoli, poi ancora Roma, Tours e l’intera regione della Turenna furono le tappe di un cammino che non conobbe sosta fino alla più tarda età. Novantenne ha la forza morale, ancor prima che fisica, di ispezionare di persona i conventi che gli offrivano in Francia.
Una vita della quale ha dovuto subire i contrattempi, le contraddizioni, le difficoltà, le croci, ma che alla fine ha saputo indirizzare verso quella missione, alla quale Dio lo chiamava e che gli rivelava lentamente, passo dopo passo, mettendo alla prova la sua fede per poter discernere e capire, così come succede per tutti gli uomini. Un discernimento mai garantito da segni straordinari, ma sempre attuato con la sofferenza e le incertezze della fede, che solo l’abbandono fiducioso in Dio riesce a superare e ad incanalare verso scelte convinte e aperte alla speranza.
Una vita che ha speso nell’ottica e nella logica del dono; perciò ha prodotto altrettanta vita attorno a sé in termini di speranza, di conforto, di accoglienza, di conversione, di fiducia, dei quali i miracoli sono stati solo un segno, forte sì, ma sempre un segno, che richiamava altri contenuti ben più alti e più profondi, che toccano, ancor più e meglio dei miracoli, il cuore dell’uomo.
Una vita che lo ha reso padre, per l’amore che ha saputo dare e con il quale è stato ricambiato da tutti. La devozione forte e convinta nei suoi confronti, che dura fino ai nostri giorni, ha le sue radici in questo rapporto di amore che S. Francesco ha saputo costruire con quanti l’avvicinavano. Padre lo hanno chiamato i contemporanei; padre lo si continua a chiamare ancora in tante contrade della Calabria e del mondo.
Una vita che ha generato alla Chiesa una nuova famiglia religiosa, che è stata per essa fonte di rinnovamento in un momento di disorientamento generale. Riproponendo, come S. Giovanni Battista ai suoi tempi, il tema della penitenza come ritorno a Dio e all’affermazione del primato dello spirituale sul materiale, ha inciso nelle coscienze, apparendo come il segno della Provvidenza di Dio, che non abbandona mai la sua Chiesa.
Una vita che, finalmente, quando si è spenta, ha lasciato sul volto del suo protagonista i segni della pienezza, della soddisfazione, il sorriso di chi moriva felice per aver vissuto una vita veramente degna di tal nome. Una morte che suggellò l’orientamento di una vita: al primo posto sempre Dio, la sua logica, la sua sapienza. L’ultimo suo richiamo alla Bibbia, poco prima di morire, è appunto la citazione delle parole di S. Paolo con le quali viene richiamato il primato di questa sapienza, consapevole del suo contrasto con quella del mondo: La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. E’ questo il cuore dell’impronta quaresimale da lui data alla sua vita e al suo messaggio nella Chiesa.
MESSAGGIO
Il messaggio che ci ha lasciato si condensa in un invito semplice, in un appello pieno di speranza: convertitevi al Vangelo, se volete vivere una vita degna di tal nome. Dalla vita al messaggio; dal messaggio si ritorna alla vita.
L’essenza della “vita quaresimale”, che condensa il messaggio spirituale di S. Francesco di Paola è tutta nel richiamo a ritornare ad impostare la propria vita nell’ottica di Dio e del suo Vangelo: “Ritornate a Dio, perché egli vi aspetta a braccia aperte”. In questo senso la penitenza ristabilisce l’equilibrio perduto con il peccato d’origine, quando l’uomo scelse di voler essere come Dio, conoscitore del bene e del male, cioè decidere da sé quali debbano essere i valori e le norme della sua vita, senza alcun riferimento ad una luce che possa venire dall’alto.
Francesco ha sperimentato nel corso dei suoi anni l’efficacia del messaggio, che proponeva agli altri, perché tutto quanto è riuscito a realizzare, dagli incontri più semplici con la gente, che gli presentava le questioni di ogni giorno, fino alle trattative diplomatiche sulle complicate questioni politiche e sociali, avute con i grandi della terra, è scaturito dallo sforzo compiuto di uniformare il suo pensiero a quello di Dio. Per questo ha adottato anche certe forme di austerità, con le quali ha voluto rendersi libero per poter svolgere il ruolo di liberatore, che Dio gli aveva affidato.
Il valore della penitenza cristiana sta proprio nella sua apertura alla vita; l’afflizione che essa produce è sempre orientata alla vita piena che Gesù ha prospettato a quanti lo seguono: Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza. La conversione alla quale S. Francesco ha esortato era orientata anzitutto alla conquista della pace interiore che si ottiene quando si opera il bene e che sola può rendere felici. Essa poi era la premessa per ottenere tutti quei beni, che egli di fatto ha ottenuto nel compiere la sua missione, sia in campo sociale, e cioè la missione di liberazione dei ceti meno abbienti del regno di Napoli, sia in campo politico, cioè la soluzione delle grandi questioni della pace e dell’equilibrio politico tra gli stati.
Leggendo la sua vita, forse rimaniamo impressionati dalle penitenze da lui praticate. E questo sarebbe poco; più grave sarebbe se noi le giudicassimo come una rinuncia alla vita. I Santi non hanno mai rinunciato alla vita, neanche S. Francesco. Le forme ascetiche sono state assunte da lui nel contesto di una logica di educazione e di formazione per rendersi capace di vivere in pienezza certi valori e di esserne un testimone forte, capace di attirare. Ancora una volta la reversibilità tra vita e messaggio, tra messaggio e vita.
E’ la logica dell’allenamento dell’atleta, che S. Paolo ha scelto per spiegare la lotta cristiana per i valori (1 Cor. 9, 24-27). Un’urgenza da riassumere e da riproporre per educare ad una pienezza di vita, della quale forse sentiamo l’esigenza, ma che, purtroppo, cerchiamo di coltivare rivendicando una libertà che deve cercare solo soddisfazioni e rinunciare ad ogni sacrificio. La libertà è gratificante e bella se orienta ai valori e al bene, e sappiamo tutti che ciò non è facile. Nella prospettiva di questo orientamento l’ascesi è necessaria, come impegno dell’uomo che lotta per orientare la propria vita al bene e ai valori. L’esperienza ci insegna che questa ascesi è ritenuta necessaria anche in un contesto solamente umano, senza alcuna connotazione religiosa. L’ascesi dell’atleta, scelta da S. Paolo come esempio, è molto eloquente in tal senso.
Elemento essenziale di questo messaggio è la presa d’atto che l’uomo da solo non ce la può fare, perché esposto a mille suggestioni che lo condizionano nelle sue scelte e impediscono un esercizio della libertà collegata alla verità e al bene. Già nella cultura classica precristiana veniva evidenziato questo conflitto: “vedo il bene e l’approvo, seguo però il male”. Condizione drammatica dell’uomo, riproposta da S. Paolo: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 9, 18-19). Ecco perché l’ascesi è la condizione di un cammino di santità.
Vita, messaggio, santità.
SANTITA’
La santità di Francesco è una di quelle che maggiormente hanno inciso nel cuore del popolo di Dio. Per quanto eccelsa essa sia stata, a motivo del particolare cammino percorso, per tanto essa si è radicata nella fede della gente, sì da essere in alcuni supporto stesso dei suoi contenuti più essenziali e sostanziali. E’ in questa dimensione che voglio parlarvi della santità di S. Francesco, cioè nel modo come essa è stata accolta dalla gente. Non sto qui a farvi un discorso di teologia spirituale, indicando come S. Francesco sia arrivato alla santità, o come essa si sia manifestata nella Chiesa e come essa l’abbia riconosciuta. Voglio solo sottolineare gli aspetti tale santità, così come sono stati percepiti e accolti dalla gente, che lo ha amato quando era in vita e che continua ad amarlo e venerarlo dopo morte.
Nella devozione del popolo, soprattutto il più semplice e umile, S. Francesco di Paola è l’intercessore presso Dio, nel senso che raccoglie i desideri e i sentimenti più reconditi dell’uomo e li presenta a lui. E’ anche il mediatore nel senso che diventa il canale attraverso il quale passa la grazia di Dio, che si riversa consolatrice e confortatrice sugli uomini.
Nel Processo Cosentino per la sua canonizzazione è indicata a più riprese la motivazione addotta dalla gente per spiegare il motivo del suo accorrere presso S. Francesco: “Andiamo a raccomandarci alle preghiere di fr. Francesco, perché interceda per noi presso Dio”. Questa convinzione è determinante nel rapporto tra S. Francesco e la sua gente. E’ questo il segreto per cogliere il modo come sia stata recepita la sua santità. Non cediamo alla tentazione di una facile e superficiale lettura, che vede nel popolo semplice atteggiamenti arcaici, che il sapere scientifico avrebbe sconfitto da tempo, ma sforziamoci di cogliere l’apertura sconfinata a Dio da parte dell’uomo, che pone in lui la sua forza. “La nostra sicurezza viene da Dio”, aveva già scritto S. Paolo.
Valga a questo proposito il racconto di come un medico chirurgo, espressione del sapere scientifico del tempo, si sia relazionato con la forza divina che emanava da Francesco. Un tale, con un grave ascesso alla gola, aveva cercato invano salvezza presso i medici più rinomati del tempo. Francesco, al quale egli finalmente era ricorso, disperato per l’impotenza della scienza e fiducioso nello stesso tempo del potere che viene dall’alto, lo inviò da un chirurgo famoso in quel tempo, il quale anche lui si rifiutò di mettervi le mani. Il malcapitato ritornò di nuovo da S. Francesco, che lo solletico a ritornare dal chirurgo, esortando vivamente quest’ultimo di intervenire chirurgicamente senza aver timore. Questi finalmente accettò, ma volle che Francesco assistesse all’intervento, anzi che fosse lui stesso ad indicargli il posto dove tagliare. Mirabile esempio di una scienza che non rinuncia a se stessa, ma coniuga il suo potere con la forza della fede e della fiducia in Dio. E’ stato questo il senso dei miracoli compiuti dal Santo Paolano, così come è stato colto dalla gente.
Non penso che, in linea di massima, possa valere per il rapporto che lega la devozione del popolo alla santità di Francesco, la paura che questa santità si sovrapponga a quella di Dio. Anche il più sprovveduto dei devoti di S. Francesco sa che lui sta in mezzo al rapporto di fede e di grazia che esiste tra l’uomo e Dio. E questo rilievo trova le sue radici già nel rapporto tra S. Francesco e i suoi contemporanei, che mentre egli era in vita lo avevano circondato dell’aureola della santità. Nonostante il legame di amore e venerazione con S. Francesco sia stato così importante, mai essi lo hanno dissociato da un rapporto forte ed essenziale con Dio. Erano proprio i suoi beneficiati a dire che ricorrevano a Francesco perché pregasse per loro; pertanto, a miracolo avvenuto, essi lo ritenevano opera di Dio compiuta per l’intercessione e la mediazione di Francesco.
Ciò svuota di significato certe affermazioni che intendono liquidare come superstizione la devozione a S. Francesco. Certe manifestazioni estreme di fiducia nel nostro Santo, che si sono tramandate nella storia, sono state espressione della disperazione profonda della gente, che poneva in S. Francesco tutta la sua fiducia, anche con gesti che a noi oggi possono apparire fuori posto e senza senso. Al contrario, la santità di Francesco si è posta sempre in quel rapporto di fede che unisce l’uomo a Dio. Certamente la mancanza di formazione religiosa, la semplicità e la superficialità delle persone, può esasperare alcune volte l’emergenza della figura del santo, ma non distrugge mai il suo rapporto con Dio.
Anche oggi, come ai suoi tempi, la sua santità è accolta, oltre che come mediazione e intercessione, anche come richiamo forte alle esigenze di conversione e di rinnovamento, che costituiscono il cuore del messaggio evangelico. E’ evidente che anche qui va fatta una lettura a raggi X per penetrare il cuore di certe forme che, immediatamente, a noi possono apparire controsenso e fuori posto.
Mi riferisco per questo aspetto, cioè il richiamo alla conversione, all’atavica paura del nostro Santo, che viene istillata già nella prima infanzia. A me piace chiamarla “paura bonaria”. Conosciamo tutti l’espressione: “Attenzione, S. Francesco ti picchia con il suo bastone”. Bisogna saper leggere nell’espressione il richiamo solenne all’impegno morale, al rispetto della legge, alla sottomissione ai valori forti, che devono ispirare e regolare la vita. La raffigurazione di S. Francesco come il vecchio dal volto austero e severo, incarna al meglio il fulgore della sua santità e la missione di conversione svolta nella Chiesa, e nella quale la Chiesa crede ancora, se lo ha definito e continua a definirlo “luce che illumina i penitenti”.
Un altro Giovanni Battista fu definito al suo tempo, e ciò nella duplice veste di asceta e di profeta di penitenza, che chiama a conversione. Giovanni Battista con il suo modo di essere e con le sue parole infuocate incuteva timore e spingeva al ravvedimento. Così è stata ed è la santità di Francesco nell’accezione del popolo, che spetta a noi saper leggere, valutare, valorizzare ed indirizzare in un momento storico in cui il richiamo ai valori è una esigenza forte, la cui mancanza è sentita da tutti come il malessere umano di fondo, causa di tanti nostri guai. La paura del bastone di S. Francesco è un richiamo pressante alle esigenze di una moralità, che deve esprimersi sempre più come sottomissione ai valori, alla verità e al bene.
Un altro aspetto della pluriforme santità di Francesco mi è caro recuperare, quella dei miracoli. Secondo la scelta del presente intervento, tratterò anche questo aspetto a partire dall’esperienza del popolo, da come, cioè, sia stato vissuto l’approccio al Taumaturgo Francesco. Tante volte noi siamo sorpresi dalla facilità con la quale la gente grida al miracolo. Meravigliati della convinzione che certe situazioni vissute, scampati pericoli, guarigioni ottenute, per sé forse spiegabilissime, in tutte o in parte, dal punto di vista umano, o diretti interessati li attribuiscano all’intervento prodigioso di S. Francesco. Spesso definiamo anche tale atteggiamento come arcaico, noi, eredi della cultura illuministica e figli del sapere scientifico. Eppure, anche tale atteggiamento ha il suo risvolto profondamente religioso, che certamente non può fondare una fede sicura, ma la può sorreggere. Esso infatti riflette quella fiducia nella Provvidenza di Dio, che tutto regge e governa e che mai si disinteressa dei suoi figli. Se cerchiamo di cogliere la lezione profonda che S. Francesco ha dato, operando i prodigi, ci accorgiamo che essa ruota tutta qui: la fede e la fiducia in Dio può cambiare il corso delle cose, può dare efficacia e potere a cose che forse in sé non l’hanno. Ricordate le sue parole: “Chi non ha fede, neanche può avere grazia”; “Non sapete voi che a quanti amano Dio le erbe stesse manifestano il loro potere?”.
Erano le erbe o le strane ricette di Francesco a guarire? No. Era la fede di coloro i quali chiedevano il miracolo, e quella di chi tale intervento di Dio mediava con la sua fede personale e la sua santità. La gente lo nota: “era un illetterato, non poteva avere conoscenze mediche”; i medici ripetono le sue ricette, usano le stesse erbe, ma non ottengono le guarigioni desiderate.
E’ questa la fede che il credente oggi offre a S. Francesco perché faccia da tramite con la Provvidenza di Dio.
Vita, messaggio, santità: in tre parole ho cercato di riproporvi la grandezza di un uomo e di un santo, che noi amiamo dal profondo del cuore e che oggi ancora di più vogliamo proporre alla Chiesa e al mondo come un modello di vita, costruito attorno ai valori forti.
P. Giuseppe Fiorini Morosini
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